20/07/2013
Depeche Mode
Roma, Stadio Olimpico
dal nostro amico e collaboratore free-lance Simone Vigneri
Pomeriggio di un giorno soffocante. Dopo una breve sosta per uno spuntino light a base di pizza, pancetta e pecorino nei pressi dell’ Olimpico, io e il mio amico ci avviamo verso l’ ingresso carichi al punto giusto e circondati da una folla che lascia presagire il tutto esaurito. Superati controlli e tornelli ci facciamo strada su per le scale e, al loro termine, l’ impatto visivo con il prato stracolmo ci fa scappare un’ imprecazione sincrona: uno spettacolo vedere l’ Olimpico “Sold Out” per il Delta Machine tour. A questo punto ci mettiamo l’anima in pace, ci sarà da lottare per raggiungere un posto con buona visuale senza soffocare. Mentre mi faccio largo tra le persone mi accorgo di un fatto significativo: sto conficcando il gomito e calpestando in egual misura giovani ventenni così come nostalgici cinquantenni. Potere dei Depeche Mode: unire generazioni di persone. Trent’anni di carriera si affacceranno su quel palco tra pochi minuti, trent’anni che hanno visto l’elettropop ascendere agli occhi di pubblico e stampa dal grado di musica fluo scanzonata e danzereccia (sebbene di successo) a genere di sostanza e spessore. Cambiamenti che hanno affondato le zanne ben più a fondo che nel mero gusto musicale di una società. Terminata la divagazione e ricollegati gli occhi al cervello ci siamo trovati in un posto strategicamente interessante, soprattutto dove la concentrazione di ossigeno risultava sufficiente a impedire il collasso. Dopo circa 30 minuti (21.10) le luci si sono spente ponendo fine all’attesa: come previsto sono le note di Welcome to my world a dare il via al concerto. La scenografia è sobria ma efficace: un grande schermo centrale, due più piccoli ai lati. Dave Gahan fa la sua apparizione con tanto di giacca scura (cosa che non ritenevo possibile considerato il tasso di umidità nell’aria) sopra l’immancabile gilet che resterà la divisa principale per tutta la serata, affiancato dai compagni insostituibili Martin Gore e Andy Fletcher. Pubblico delirante, mani al cielo, luci degli smartphone come candele, flash come lampi nel cielo di Roma. Nemmeno il tempo di rendersi conto dello spettacolo che si sta svelando ed è già tempo di chiudere il distico introduttivo di Delta Machine: suonano le note di Angel. Gahan imbriglia la sua voce con la consueta maestria e infonde fuoco nei 60.000 fortunati che lo stanno celebrando come maestro insostituibile di un rituale tribale che viene celebrato da sempre. Al termine arriva il momento di un salto nel passato con un classico: Walking in my shoes viene accolta da un ovazione e sostenuta dalle giravolte di Dave che invoca a più riprese la partecipazione del pubblico che lo ripaga in pieno. Il pezzo successivo impone invece un balzo cronologico in avanti, Precious viene condotta per mano dagli affondi duri di Martin alla chitarra e sfuma nella testa con le parole “If God has a master plan, then only He understands…”, nessuna logica è richiesta né possibile, ci addentriamo nel regno di chi si abbandona. Alla guida i Depeche Mode ci riportano nuovamente al punto di partenza in un vortice che segue questo senso di perdita e sottrazione salvifica dal superfluo, si torna agli anni ’80 con Black Celebration che dà il titolo all’ album considerato dalla critica come la loro pietra miliare, con un brivido lungo la schiena del sottoscritto. Dopo un susseguirsi di successi degli anni ’90 come Policy of truth e Barrel of a gun alternati a brani dell’ ultimo album arriva il momento del primo intermezzo della sublime opera a cui assistiamo in migliaia: Gahan esce di scena, resta Gore. The child inside e soprattutto Shake the disease sono melodie rese dolcemente malinconiche dalla straordinaria voce di Martin: una ninna nanna che anticipa l’oblio. Al ritorno del figliol prodigo il singolo Heaven viene seguito da Soothe my soul che accende prato e tribuna indistintamente in un ballo convulso e scatenato. Il sacerdote Gahan si muove senza requie in una danza sensuale di vita, senza concessioni, ora sinuoso ora vibrante e teso come un atleta pronto al duello. Il tempo non esiste, non scorre. C’è uno smarrimento di sé in un Desiderio traboccante, quello che Carmelo bene avrebbe definito “porno”. Non si guarda indietro ormai, è un Baccanale dell’anima che straripa inarrestabile. Prima del gran finale una menzione speciale va fatta per A question of time dove Gahan rende davvero arduo credere che la sola genetica possa essere responsabile dello spettacolo di cui si rende protagonista. Una energia inesauribile e contagiosa viene irradiata da un corpo asciutto e lucido (51 anni signori miei!) mentre roteando l’asta del microfono chiama di continuo la folla a sé, circondato da lava e scintille che scoppiettano sui teleschermi. E’ il segnale che attendevamo tutti, il momento in cui l’estasi sessuale e creativa viene esplosa violentemente: Enjoy the silence (pezzo cantato sempre quasi interamente dal pubblico) - Personal Jesus (fenomenale incipit lento in progressione prima del classico avvio cadenzato e battente) - Goodbye (a riunire ancora una volta il passato nel presente e quindi a dissolverli entrambi). Le luci si spengono, restiamo tutti esausti e spossati. Ma non è ancora giunta l’ora di andar via. Riapre le danze Martin gore con la commovente Somebody, seguita dalla primordiale I just can’t get enough con un tripudio di luci e colori che si fondono con i sintetizzatori protagonisti assoluti di leggerezza e allegria. I feel you viene spinta dai potenti e pulsati ritmi di chitarra di Martin e dalla voce di Dave divenuta rabbiosa e che a tratti tolgono il respiro mentre alle loro spalle ombre di deejay e ballerine si agitano vigorose. E’ l’ultimo atto prima della chiusura che arriva sulle parole di Never let me down again, unica perla dall’ album preferito del sottoscritto. Torce accese verso il cielo, ci si stringe tutti prima di lasciarsi, un giro tra amici e un ultimo ballo. “We're flying high, we're watching the world pass us by. Never want to come down, never want to put my feet back down on the ground”. Alla fine mentre Dave abbraccia Martin esausto e sommerso dagli applausi e dalle urla mi attraversa d’improvviso la consapevolezza di una straordinaria catarsi che ho vissuto e condiviso con 60.000 persone e che non posso descrivere in altro modo se non con le parole “Depeche Mode”.
mercoledì 24 luglio 2013
Live Reportage: Depeche Mode live "Delta Machine Tour"- Roma 2013
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